L’auto-officina del non-sé
Giuseppe Fusari
Per questo si disegna
(e si producono appunto
i segni detti “iconici”):
per realizzare senza specchio
ciò che lo specchio consente.
Umberto Eco, Sugli specchi, 1985
È una questione di specchi, fin dall’inizio. La differenza di autocomprensione (io sono io-tu sei tu) tra l’uomo e l’animale sta in quello che l’antropologia definisce come “autocoscienza riflessa”, ossia la capacità di riconoscersi come persona. E questo attraverso la riflessione, attraverso la possibilità di autoriconoscimento. Sembrano considerazioni filosofiche (e lo sono) ma con sé portano il seme principale, liminale, della possibilità di concepire l’immagine e, soprattutto, l’immagine di sé. Gli animali a noi più vicini, il gatto e il cane, davanti a uno specchio hanno una reazione di sorpresa/paura o di indifferenza, non di identificazione. Invece, nel lento scorrere del fiume nel quale si specchia Narciso, sta già il senso del riconoscersi, e con questo del desiderarsi e del riconoscersi-come-immagine. Riflettere (è interessante) è verbo dell’esterno e dell’interno: lo specchio riflette l’immagine, ma quando penso sto riflettendo. Cosa? Ogni pensiero dell’uomo, anche il più banale, è riflessione perché mette in comunicazione l’interno con l’esterno e tenta una soluzione (talvolta la più dannosa) per colmare il divario che si sente tra io e tu. È interessante che, a fondazione dell’arte della pittura, gli antichi (è un’opinione che recensisce anche Vasari all’inizio delle sue Vite) ponessero il contorno della figura, immagine reale di un concetto: il luogo che segna la distinzione tra l’essere e il resto del mondo; è Vasari poi che, integrando l’idea di arte, artista e figura con la prospettiva cristiana, introduce il concetto di immagine a imitazione dell’immagine di Dio. Anche qui concetti filosofici per dire in che modo, comunque, in senso intuitivo l’arte (in quanto produttrice di immagini) abbia intercettato quello che fermenta nell’interiorità, attraverso l’esplicitazione del mito (quello della caverna platonica è segno di quanto il rapporto tra vero, reale e immagine sia problematico e affascinante – oltre che fondativo – nel mondo greco) ma anche attraverso l’indisponibilità del sé rispetto a quella che è la sua manifestazione all’esterno.
Sarebbe ridurre a misera cosa – lo si fa spesso, purtroppo – Narciso se lo si considerasse solamente come l’immagine (e si torna) della ybris della vanità: è molto di più perché è la prima lezione che vien data al mondo occidentale sull’indisponibilità dell’esterno rispetto all’interno. Gli ebrei e poi i musulmani hanno rifiutato la regola dell’immagine come pericolo di deificazione ma, nel più profondo, tale rifiuto sta nel divieto a non cercare di imprigionare nelle cose l’immagine (la scintilla, si direbbe alla greca) di Dio. L’Occidente non ha questo parallelismo umano/divino; il rapporto è psicologico (della psykes, dell’anima), è dinamico ed è sempre dato e mai completamente avuto. San Paolo, scrivendo ai Corinzi (gente greca) dice che conosciamo per speculum et in ænigmate, segnalando che la nostra riflessione è incerta e smarginata; l’enigmaticità (ricordiamo che gli specchi al tempo di san Paolo erano semplici superfici riflettenti che restituivano qualcosa dell’immagine) è in quell’imprendibile che è l’indisponibilità dell’interiore rispetto all’esteriore, all’incompletezza che l’immagine mostra rispetto al mondo che si scatena ogni volta nell’interno della persona. Questa enigmaticità dello speculare l’intuiva Caravaggio lavorando non solo per un risultato estetico con gli specchi e pure i francesi del secondo Ottocento, per levare quello che non era necessario (la cosa piacque anche ai nostri macchiaioli) ma lo specchio oggi è divenuto l’elemento filtro per eccellenza, anche se non se ne coglie l’onnipresenza e la spietata definizione. L’apparire del ritratto, fin dall’antichità, ha segnato un’opportunità: che il tu potesse raffigurare l’io: la potenza dell’artista che riusciva a cogliere il quid dell’altro, a ragione lo immortalava; e così, ancor di più, l’artista che poteva fare di sé un auto-ritratto, giungendo con questo alla concretizzazione in immagine dell’oraziano Exegi monumentum ære perennius, poteva immortalarsi e con questo falsificarsi con la propria diretta volontà. Come per le autobiografie il tasso di non-verità è maggiore di quanto non avvenga nelle biografie scritte da altri; e se chi viene ritratto (me lo ricorda spesso Cinzia Bevilacqua) desidera vedersi migliore, desidera correggere qualcosa, anche consapevolmente, sapendo che quel particolare non corrisponde al vero, nell’autobiografia e nell’autoritratto il gioco diventa più sottile, addirittura auto-complice, diventa riflessione sul riflesso e quindi (ormai ci siamo) filtro, ritocco, rilettura del fatto esteriore per piegarlo all’esigenza.
Di cosa? Si direbbe, a questo punto, dell’esigenza interiore; eppure lo specchio, sempre e sempre più onnipresente sotto forma camera fotografica, impone il ritocco in vista del tu sei, non dell’io sono. L’io si percepisce nella collettività dell’accettazione dei restanti tu sei. La standardizzazione degli atteggiamenti, delle inquadrature, dei filtri messi in atto con la realizzazione dei selfie è prova che l’io si percepisce in rapporto a quella volontà che non dipende più dalla riflessione ma dalla triplicazione. È la prima volta dall’inizio dell’umanità che ogni persona può possedere un modo per manipolare la propria immagine così da renderla capace di descriversi e, di converso, questo esperimento, porta all’opposto: alla esteriorizzazione dell’esterno così da impedire (forse anche a chi scatta l’immagine) di essere conosciuto. Alcuni anni fa Cinzia Bevilacqua aveva realizzato una serie di ritratti – alcuni di questi sono in mostra – nel quali l’elemento introspettivo è rapido, graffiante, quasi intuito per la volontà di chi accettava la sfida del ritratto di essere conosciuto, almeno in una variante di sé. Gli ultimi ritratti, particolarmente quelli realizzati per questa esposizione, segnano il distacco quasi violento da questa disponibilità: anche la messa in scena (l’ingresso in scena sulla tela) dello smartphone indica questo nuovo passaggio che non ha più afferenze con l’artista, non chiede all’artista di essere complice, ma si contenta dell’autocompiacimento, dell’adeguamento, dell’essere per quello standard di accettabilità che in passato era solamente punto di riferimento (qui la splendida tela dove Cinzia ha raccolto immagini di bellezza del passato), canone, e che, invece, ha ora assunto lo spessore tautologico del guardarsi, isolandosi alla ricerca di una univoca estraneità.
Credo che questo percorso dal ritratto all’autocompiacimento, messo con coraggio sulla tela dalla pittrice bresciana faccia comprendere la rottura che si è consumata sotto i nostri occhi in maniera quasi inconsapevole. È sempre stato questo, infatti, il compito dell’arte: essere sentinella, essere profetica, essere, in fin dei conti (e contro ogni speranza), umana.


Espongono insieme due artisti che hanno effettivamente profonde e complesse affinità nel rispettivo lavoro, eppure non si potrebbero immaginare più diversi nelle modalità e nelle strategie espressive. Eppure questo abbinamento è molto bello e convincente e ha senso anche oltre l’ episodio immediato dell’esposizione attuale che ci si augura possa avere un riscontro e una partecipata attenzione da parte di tanti appassionati e cultori delle Belle Arti.
I due artisti sono Cinzia Bevilacqua e Ferdinando Fedele.
Colleghi e amici, hanno condiviso e condividono esperienze comuni di ricerca e creatività di cui possiamo oggi apprezzare per entrambi una fase assai significativa.
C’è, adesso, un tema appunto condiviso che caratterizza questa mostra ed è il Ritratto, anche se il modo di pensarlo ed eseguirlo è diversissimo nei due Maestri.
Cinzia Bevilacqua è una pittrice di sostenuta qualità. Non è soltanto il Ritratto il suo campo di azione prediletto. Lavora, infatti, moltissimo anche nell’ambito della Natura Morta ( ambito in cui ha prodotto, tra l’ altro, nel corso del tempo alcune delle sue cose più belle ) includendo nella dimensione della Natura Morta anche le scatole dei medicinali e la carta igienica che sono due autentici “cavalli di battaglia” tra le sue tante invenzioni dove, peraltro, la figura resta assolutamente dominante.
Presupposto del suo operare è, si potrebbe dire con una formula forse un po’ troppo semplificatrice, il piacere, inteso nel senso più estensivo e profondo del termine. Non la piacevolezza, si badi bene, ma il piacere inteso quale dimensione privilegiata della conoscenza, di se stessi e degli altri. E qui il termine “conoscenza” non è fuori luogo, anzi è proprio il caso di utilizzarlo. Quando parla di sé Cinzia Bevilacqua usa sovente l’espressione “quello che so”, intendendo dire che dipinge per precisare e sviluppare sempre più quello che di fatto sente con chiarezza di possedere chiaro e nitido dentro di sé. Ha studiato tanto e si è applicata tanto sostenuta da un flusso costante di ispirazione e da una assoluta sicurezza della mano. Quindi è certa del suo sapere. E non è caratteristica esclusivamente sua. Anzi è caratteristica peculiare proprio dell’artista in senso lato, dedito a perfezionare ciò che sostanzialmente sa di poter dominare ma che necessita, di volta in volta, di chiarirsi sempre meglio, In definitiva è il principio espresso dalla frase latina, forse detta da Catone il Censore a proposito della ars oratoria, del Rem tene, verba sequentur. Se sei consapevole di dominare il tuo stesso sapere ( la res), allora sarai in grado di esprimerne adeguatamente le conseguenze, che sul piano creativo sono appunto la realizzazione compiuta dell’ opera d’ arte formulata.
Fedele è parimenti un artista che ha forti certezze in sé, ma il suo approccio all’ opera d’arte è analitico e rigorosamente “severo” e programmatico.
Paragonando le diverse ma convergenti strategie creative che oggi espongono insieme, si potrebbe dire, usando una metafora forse un po’ esagerata, che Cinzia è come un’astronoma che scruta il cielo della creatività con un cannocchiale che le permette visioni molto ravvicinate: mentre Ferdinando Fedele scruta la dimensione del visibile col microscopio e vede con massima precisione ciò che ad occhio nudo non si riuscirebbe ad individuare e conseguentemente a descrivere.
Ecco perché sono abbinati bene in un contesto che alla prima può sorprendere ma nel senso più bello della parola!
Cinzia Bevilacqua
Ultimamente l’ artista, nel progettare questa stessa mostra, ha lavorato molto sul tema del Narciso che può essere ben visto come una specie di emblema dell’artista in sé. Narciso si innamora della propria immagine riflessa senza rendersi conto che quell’ immagine è lui medesimo. Quindi non vede altro se non se stesso ed è vero che, uscendo dalla metafora, è impossibile fare sul serio il mestiere dell’artista se non si pensa con totale certezza e determinazione di essere tale. È impensabile che, in qualunque epoca, si possa fare l’artista senza pensare, magari a livello subliminale, di essere unico e grande, anzi probabilmente il più grande. Altrimenti fai un altro mestiere! Come accade inevitabilmente allo sportivo o al religioso di professione, perché entrambi debbono e probabilmente vogliono ostentare umiltà e condivisione ( il culto della squadra), ma stanno lì per vincere o almeno per primeggiare.
La figura dell’artista è analoga. Se non si ha questa spinta poderosa non ci si sente veramente artisti. Il che non significa che un artista non possa avere poi un carattere mite e gentile, o che non sia affabile o amichevole.
Cinzia Bevilacqua è la persona più garbata ed equilibrata del mondo e la sua gentilezza è esemplare. Ma la sua arte scaturisce veramente da una piena coscienza e convinzione di sé da cui scaturisce energia e potente espressione di sé.
Ma, appunto, il narcisismo non c’entra granché con questa strategia creativa. Non è il basso continuo sotteso alla sua vastissima attività nel campo della ritrattistica.
Cinzia ha fatto e fa molti autoritratti e questo, a ben pensarci, potrebbe confermare una latente tendenza narcisistica. Ma in realtà l’approccio, e lo si vede magnificamente nella mostra, all’autoritratto e al ritratto in lei sono identici. Nella sua attività di ritrattista spicca una serie di opere di altissimo impegno e finissima qualità di stesura della materia pittorica dove rifulge quello che potemmo definire l’afflato vitale che preme dentro il quadro per sua natura immobile e immodificabile che, per sua matura, è pressoché l’opposto della dimensione narcisistica. Cinzia Bevilacqua, quando rappresenta sé stessa o le persone, celebri o meno, che entrano nel suo spazio pittorico, è attenta soprattutto alla latenza vitale contenuta nell’ immagine. Anzi tanto poco è narcisista che una volta si è addirittura raffigurata in una bara, in un lavoro di impressionante e insieme sobria suggestione. Faceva finta, beninteso! Ma tutte le sue persone dipinte avvertono, va ribadito, la latenza della vita nell’ immagine, ribaltando così la soglia narcisistica, perché Narciso sprofonda nell’ immagine e muore trasformandosi in un fiore, mentre questi ritratti spingono la figura verso il livello esistenziale per entrare nel mondo reale pur arrestandosi sulla soglia ovviamente invalicabile, ma proprio per questo spiritualmente rilevantissima.
Il che conferisce a tutte queste opere, Nature Morte comprese, un peculiare senso di gioia di vivere, di allegria dell’esistenza, come a suggerire la possibilità di una decifrazione anche psicanalitica di queste immagini, forse leggibili attraverso certe categorie analitiche come quelle, seguendo qui il pensiero di Jacques Lacan, appassionato intenditore di arte figurativa, del Colloquio e del Desiderio, della Vergogna, del Godimento e della Solitudine, senza, peraltro, che nessuno di questi fattori prevarichi mai sulla nitida evidenza immediata dell’ immagine. La corposa finezza della materia pittorica della Bevilacqua è il veicolo più efficace per manifestare un tale senso di benessere e anche di affettuosa ironia. Con linguaggio matematico, non disdicevole all’ esattezza delle sue immagini, potremmo dire che Cinzia Bevilacqua tende a dipingere sempre degli “Insiemi” di personaggi e di cose tutti interconnessi da una solida struttura stilistica e tutti confluenti verso certe espressioni comuni e basterebbe per tutti il prodigioso e invero bellissimo ritratto della grande attrice Claudia Gerini, capolavoro di acume e freschezza.
E perlustrando questa magnifica gamma di ritratti viene in mente l’eterno detto dell’ Oracolo di Delfi: conosci te stesso e nulla di più.
Ferdinando Fedele
Anche Fedele è un artista che tende a elaborare degli “Insiemi”, ma in un senso e in un modo ben diversi. Per lui questa mostra è una sorta di mescolanza tra la tradizionale esposizione di opere compiute e l’ happening, da intendersi però non tanto nell’ ormai antico e storicizzato senso del termine, quanto letteralmente, come cioè di un qualcosa che sta avvenendo e che continua a reiterarsi sempre uguale e sempre diverso.
Una parte della sua mostra, e di certo assai significativa, è scaturita dall’evento che presenta nello spazio espositivo e che ha elaborato indubbiamente nel nome della Ritrattistica, ma qui intesa come una specie di catena di trasmissione che si rigenera, appunto, continuamente ad ogni nuovo atto, quasi un passaggio di testimone nella staffetta. Ma qui questa circolazione, che è circolazione di un’ idea e di un’ azione, resta però come imbrigliata in una sorta di sosta perenne da cui si può sempre ripartire ma che rimane ferma, immobile. Ogni visitatore fotografa con lo smartphone un altro e la clausola è che l’ inquadratura sia di profilo. Da qui i risultati verranno raccolti e l’artista elaborerà la formulazione finale delle immagini che verranno consegnate all’autore, diciamo così secondario inteso come colui che ha effettivamente scattato la foto, trasformandolo in veicolo della propria opera, mantenendosi dunque Fedele quale autore dell’ intero processo, prima quasi involontario da parte dell’ operatore quasi benevolmente costretto a fare un qualcosa attraverso la quale la volontà creativa dell’artista Ferdinando Fedele potrà essere espressa al massimo livello di volontà e consapevolezza.
Insomma la strategia creativa di Fedele che non è tanto ispirata a quella gioiosa energia sottesa ai lavori di Cinzia Bevilacqua, quanto concentrata invece sulla immobilizzazione e sintesi del’ immagine. In realtà, però, il rapporto tra i due artisti è più profondo di quanto possa sembrare alla prima apparenza. Fedele è un artista che veramente tende a rappresentare in sostanza il flusso quasi ancestrale del pensiero in sé, da intendersi però sul doppio binario della riflessione consapevole e meditativa e del concetto conseguito come fosse la dimostrazione di un teorema matematico che, nella sua conclusione, o risulterà esatto o risulterà sbagliato.
Un criterio logico-filosofico ancor prima che artistico, quel principio che una volta individuato resta simile a sé stesso.
Sono ritratti i suoi, ma che sembrano scaturire dal cogito cartesiano: penso e quindi sono. Il pensiero per Fedele è appunto nella predisposizione di una vera e propria strategia obbligata, con regole precise e comportamenti conseguenti, da cui scaturirà un vero e proprio sistema di immagini che restituiranno all’ osservatore attento una peculiare dimensione ritrattistica. Questa sarà fondata sulla verosimiglianza e sulla oggettiva evidenza dell’immagine, ma verrà percepita come tendente più a raffigurare i grandi universali del funzionamento della mente stessa e del sentimento che vi abita. Logicamente è esclusa a priori, da una simile strategia qualsivoglia ipotesi narcisisticamente edonistica e, come tale, sterile.
Al contrario Fedele è animato da una esigenza di ordine, armonia, equilibrio per cui la creazione del ritratto si pone per lui come una sorta di esame di coscienza estetico, il cui fine è appunto rappresentare ciò che si pensa e, pensandolo si vede.
Ma la parte della mostra a lui dedicata non si esaurisce nelle azioni/ performance che pur ne costituiscono comunque il nucleo forte e caratterizzano la sua peculiare dimensione ritrattistica.
Infatti su due pareti piccole della Galleria, l’artista allestisce una serie di stampi in piombo con foglia d’ oro e argento ( una sua tecnica particolare approfondita nel corso degli anni) che rappresentano, tutti insieme, una testimonianza interessante di momenti precedenti del suo lavoro, come tante tessere di un mosaico in cui la tessera è sostanzialmente sempre la stessa e forma una griglia figurativa continuamente riproposta e rielaborata con l’ impressione di spessori e colori diversi che vanno continuamente a intersecarsi,.
C’è in questa immagini, come arcaicizzanti, una connessione subliminale con l’evento della moltiplicazione delle foto, perché questi, in apparenza antichi stampi, si trovano figurativamente parlando sulla soglia della svolta, in parte anch’ essa apparente, che porta Fedele all’azione, site specific, che è il fulcro necessario del tutto. Ritratti di profilo. Questa è una conditio sine qua non del nostro artista, come se in lui fosse radicato un ricordo remoto ma nitidissimo, quello delle monete e delle medaglie della classicità in cui l’effige del monarca, del militare, del sacerdote, è sempre e comunque rigorosamente rappresentata in profilo.
Il profilo conferisce una fissità e un rigore all’ immagine che la visione frontale sovente ignora o, perlomeno, trascura. Ecco, allora, che l’Insieme scaturito dalle elaborazioni di Fedele risulta fortemente unitario, ribadendo quel principio della sequenza che ha indubbiamente una remota, antica provenienza per poi legarsi inestricabilmente a quel rischio di cadere nell’effimero che i nostri avanzatissimi strumenti tecnologici sembrano inevitabilmente contenere in sé.
Ancora si avverte in tale strategia creativa lo shakespeariano “essere o non essere” del principe Amleto. Sembra la domanda che ciascun profilo muove all’altro che lo segue. Ed è una domanda implicante in rivolgersi all’altro con il tu.
La griglia fissata da Fedele è così costituita da tante immagini che si rivolgono ciascuna all’altra come interrogandola con la domanda fatale: “chi sei?” E la risposta potrebbe anche essere: “e tu, allora?”
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